Non è agevole ricostruire l’identità femminile nel Medioevo senza attingere alle fonti documentarie disponibili negli archivi privati e pubblici di Fabriano. Gli storiografi sono concordi nel riconoscere che agli albori dell’età comunale a Fabriano sono fiorenti i settori artigianali e terziario rispetto ad un’agricoltura che, per la scarsa fertilità dei terreni, non soddisfa i bisogni alimentari della popolazione residente. Nel XIII secolo Fabriano è un Comune a prevalente economia manifatturiera da cui dipendono i livelli occupazionali e l’attività commerciale. I lineamenti socio-economici del comprensorio fabrianese segnano il profilo di una civiltà appenninica tra Marche e Umbria le cui orme sono evidenti nell’ambiente, nella cultura, nella creatività, nelle tradizioni popolari, nella laboriosità degli uomini e delle donne, ampiamente illustrate nel libro La città della carta. Ambiente società cultura nella storia di Fabriano, edito nel 1986.
Dal confronto tra i signori o boni homines dei borghi murati disseminati nelle terre del contado e l’insorgente borghesia dei populares emerge un’architettura sociale che nel lungo periodo influisce anche nei cambiamenti politici e nei passaggi dal Comune aristocratico al Comune delle Arti, dalla signoria dei Chiavelli, con le loro consorterie plutocratiche, alla signoria dello Sforza e poi ai governi larghi. La crescita del Comune è alimentata dalla immigrazione degli abitanti del contado e dal conseguente sviluppo demografico urbano che producono il divario tra città e campagna definendo il profilo di una dicotomia tra società agricola e società urbana simile soltanto per l’articolato di famiglie patriarcali occupate nei lavori dei campi o nelle manifatture cittadine del ferro, dei panni-lana, dei corami, della carta bambagina e nei commerci. La struttura sociale, che intorno al 1340 si articola in 3.600 nuclei famigliari (fumantes), si consolida in un territorio strategicamente importante per le comunicazioni con l’Italia centrale.
La famiglia è la vitale cellula sociale che costituisce il tessuto connettivo della popolazione attiva. In questo contesto le donne non si limitano a svolgere le funzioni di casalinghe, ma spesso aiutano gli uomini nel loro lavoro o sono direttamente impegnate nelle varie attività agricole o manifatturiere. La donna è un parte vitale di una società composta di persone attive, vivaci, dedite al lavoro e ai traffici, come sostiene Giuseppe Avarucci nella sua prefazione al libro Gli antichi protocolli dell’Archivio Notarile di Fabriano. Giovanni di maestro Compagno notaio (1297-1325), stampato nel 2005 a cura di Manuela Morosin e Chiara Falessi. L’uomo è il protagonista della società, la donna ha compiti prestabiliti dalla sua posizione famigliare di madre, sorella, moglie, figlia. Sembra quasi diffuso il noto principio: la donna deve fare senza sapere. Dai 2.999 documenti registrati dal notaio Giovanni si ricavano 1.367 nomi di donne che risultano protagoniste di atti tra privati, di negozi giuridici relativi a compravendite, di contratti aventi per oggetto le colture agricole o le attività artigianali, di accensione di mutui, di quietanze di pagamento, di estinzione di debiti, di testamenti, di contratti di matrimonio, di restituzione di dote, di operazioni portate a termine dal marito o viceversa, di donazioni, di usufrutto, di soccida. Si manifesta così una moltitudine di donne attive che rileva alcuni aspetti di vita famigliare e lavorativa e che pone in evidenza le tradizioni, gli usi, i costumi, il folclore, le consuetudini, la ricchezza e la povertà delle genti.
Lo statuto comunale del 1415, emanato dal magnifico signore di Fabriano Tommaso Chiavelli (1358-1435) e studiato, commentato e trascritto da Giuseppe Avarucci e Ugo Paoli nel 1988-89, dedica alcune rubriche del libro secondo alla donna. È configurato il reato di stupro. L’uomo che violenta una vergine o una religiosa è punito a norma di diritto. Se la donna coniugata ha subito violenza è prevista per l’aggressore la pena di 500 libbre, se è nubile la pena è ridotta a 200 libbre. Non è ammesso il concubinaggio. Alle meretrici e alle donne di malaffare è vietato abitare sia all’interno delle mura urbiche, sia nei borghi. Disposizioni precise regolano l’istituto della dote e del matrimonio.
Da recenti studi del periodo storico, che va dal XIII al XV secolo, si rileva che nell’ambito famigliare le donne assumono una posizione rilevante, anche se poco appariscente, nelle attività economiche e lo dimostrano quando per volontà del marito vengono nominate esecutrici testamentarie e, una volta rimaste vedove, amministrano il patrimonio lasciato dal coniuge divenendo tutrici dei figli minori. Con i beni liquidi della propria dote la donna assicura un’entrata che aumenta il patrimonio famigliare, recuperabile se abbandonata ad allevare i figli. Nel contesto delle attività economiche, esercitate dai mercanti in area fabrianese si profilano anche figure femminili che assumono il ruolo di operatrici in grado di prestare denaro nei limiti di un lecito guadagno. Casi emblematici sono quelli di Beatrice di Bonomo che il 17 giugno1294 concede un mutuo di 30 libbre di ravennati e anconetane ad Augustolo e a Rustichello, di Letizia di Benvenuto che il 23 giugno 1324 vende a Mancia di Petruccio una casa per 37 libbre, di Giovanna, vedova di Criscio, che diventa creditrice per avere dato in prestito a Marcellino di Agostino e a sua moglie Lisa 6 fiorini d’oro, come si legge in un documento del 28 maggio 1328, di Lucia che presta 4 fiorini d’oro a Bonanno di Pucciolo il 26 ottobre 1333. Verso la fine del Trecento, Talia, prima moglie di Lodovico di Ambrogio di Bonaventura, facoltoso mercante di carta, nel 1386 acquista dalla madre Costanza, vedova di Monaldo di Martino di Sassoferrato, terre nelle contrade di Bersano, Burrano e Argignano per 850 libbre. Marianna, seconda moglie di Lodovico, per favorire il marito, che nel 1412 viene a trovarsi in gravi difficoltà economiche, gli concede 300 ducati d’oro della sua dote in cambio di alcune terre.
Le donne anche da sole, senza la tutela dell’uomo, padre o marito, sono capaci di affrontare le avversità della vita e di risolvere incresciose situazioni. È il caso di Margherita di Clodio dei Mainetti di Cingoli, seconda moglie del conte Gentile appartenente alla famiglia dei Rovellone possessori di un vasto feudo nell’alto Esino comprendente anche i castelli di Rotorscio, Precicchie, Avoltore e Castelletta. Margherita rimasta vedova, incinta, madre di quattro figli di cui è tutrice, nel 1303 si batte con coraggio per difendere il patrimonio ereditato dal marito e per assicurarsi la protezione del Comune di Fabriano. Dalla lite sorta per l’esecuzione testamentaria nasce un’intricata vicenda che per quindici anni coinvolge i figli del primo letto del conte Gentile a loro volta protetti dal Comune di Jesi. Dopo alterne vicende la lunga e cruenta contesa tra i due Comuni si conclude con il trattato di pace del 1318 nel quale si riconosce a Fabriano i diritti sugli antichi castelli di Rovellone, Castelletta, Grotte, Avoltore e Precicchie, che erano stati sagacemente venduti nel 1305 con la relativa giurisdizione a quel Comune da Margherita, ricavandone 20.000 libbre e la protezione del compratore per i propri figli. La causa civile termina con una transazione che stabilisce il riconoscimento della giurisdizione e il possesso dei cinque castelli a Fabriano dietro il pagamento di 8.000 libbre ai figli di primo letto del conte Gentile. È evidente che da questa contesa è una donna a trarne profitto.
Fra le figure femminili che hanno lasciato tracce nella storia medioevale locale per la loro operosità e il loro “alto sentire” risalta la “bellissima, virtuosa e di eccellente ingegno” Livia, moglie di Tommaso Chiavelli – inserita nell’elenco dei “Distinti Fabrianesi” pubblicato da Oreste Marcoaldi (1825-1879) nella sua Guida e statistica del Comune e Città di Fabriano, stampata nel 1873 – alla quale vengono attribuiti due sonetti. Romualdo Sassi (1878-1969), nel suo Il “Chi è?” fabrianese del 1958, precisa che Livia, ma il suo vero nome è Ligia, è una donna di grande pietà e liberalità specie verso gli ordini religiosi alla quale viene negata l’autenticità dei due sonetti. Di origine toscana, vissuta tra la metà del Trecento e i primi decenni del Quattrocento, alla Chiavelli furono attribuite alcune poesie risultate poi, alla luce di ulteriori studi, frutto di falsificazioni, neppure tanto abili, di poeti petrarchisti del secondo Cinquecento, come precisa il suo biografo Pasquale Stoppelli nel XXIV (1980) volume del Dizionario biografico degli Italiani.
Anche se non ci sono prove la leggenda induce a credere che le undici donne di casa Chiavelli, dopo l’eccidio del 26 maggio 1435, avrebbero subito violenze e sevizie sebbene i congiurati e i rappresentanti del Comune di Fabriano assicurarono che a loro fu riservato un rispettoso trattamento.
Quando Francesco Sforza, che dominò Fabriano dal 1435 al 1444, e la sua giovane sposa Bianca Visconti vennero in visita a Fabriano nel 1441, furono accolti trionfalmente e ricevettero manifestazioni di omaggio anche da numerose, gentili ed eleganti donne fabrianesi coperte di graziose e ben foggiate vesti che con compita riverenza scortarono gli illustri ospiti fino al pubblico palazzo. Bianca Visconti, sorpresa dalla calorosa accoglienza, non si stancava di ripetere che anteponeva alla bellezza e gravità dell’andare e la severità dei costumi delle donne di Fabriano a molte delle altre città della Lombardia. A commento di questa spettacolare accoglienza Romualdo Sassi in una sua conferenza – dedicata ai Chiavelli tenuta nel 1934 per iniziativa del Comitato fabrianese della Società nazionale “Dante Alighieri” e poi edita nel 1935 – si pone questa arguta domanda: dove erano cresciute, dove avevano appreso sia le gentili maniere sia lo sfoggio dei vestimenti queste matrone che fecero al governatore della Marca e alla futura duchessa dei Milanesi così grata impressione, se non presso gli antichi signori di cui avevano presto dimenticato con leggerezza e volubilità muliebre, la truce spaventosa morte per donare le amabili grazie e il fulgente sorriso al novello dominatore? Fra quelle nobili donne si distinse in modo particolare Giovanna di Fiore, che per l’occasione inneggiò un pregevole madrigale all’augusta coppia Francesco e Bianca, come atto di raffinata e solenne ospitalità con il quale si volle ostentare la raffinata cultura della città di Fabriano.
Con la sua monografia Incarcerati e incarcerate a Fabriano dei secoli XIII e XIV Romualdo Sassi ci permette di conoscere i devoti di ambo i sessi che si racchiudono a scopo di penitenza in celle o carceri senza seguire una determinata regola, senza pronunciare voti, senza essere iscritti a un ordine religioso regolarmente autorizzato dalla Chiesa. Questa forma di devozione a Fabriano ebbe notevole vitalità e un’espansione più intensa che altrove a cominciare dal 1261, raggiungendo il massimo sviluppo nel secolo XIV. Da notare che le femmine superano di gran lunga i maschi. Da un documento del 1363 risultano esistenti 21 carceri femminili. In un atto del 1367 si contano 12 carceri con 15 abitatrici. Nel 1372 le carceri collocate nel suburbio salgono a 15 e le carcerate a 34. Di solito sono donne che vivono isolate, rare volte coabitano in gruppo in un ampio edificio. Il carcere spesso era di proprietà della stessa abitatrice, ma si registrano immobili di proprietari non abitatori, come nei casi delle nobili famiglie dei Fidismidi e dei Farratoni, dei monaci Silvestrini di Montefano e della fraternita di S. Maria del Mercato.
Le carcerate vengono di solito indicate con l’epiteto Sorores, mentre alle numerose monache regolari spettava quello di Dominae. Sebbene le Sorores non seguissero determinate regole, tuttavia potevano adottarne una divenendo oblate di ordini religiosi.
Il Sassi fornisce un elenco dove risulta che dal 1261 al 1428 sono identificabili 7 incarcerati e 57 incarcerate e afferma che la decadenza di questo costume di religiose stravaganti avviene all’inizio del secolo XV, forse per il corrispondente rigoglio degli ordini religiosi, ma soprattutto per misure di vigilanza e di cautela dell’autorità ecclesiastica. Infatti sarà il concilio di Trento del 1545 a definire questo processo di regolarizzazione imponendo a tutte le religiose una rigorosa disciplina.
Giancarlo Castagnari Socio fondatore di LabStoria