Non molti sono i documenti che ci consentono di gettare luce sulla figura femminile nel medioevo fabrianese. Sebbene non sia agevole comprendere a pieno quali fossero gli usi e costumi e le reali condizioni di vita, possiamo comunque ricavare alcune informazioni affidandoci alle scarne notizie che si possono ricavare sia dagli atti ufficiali, notarili e giuridici, ma anche da lettere e testi di natura privata.
Per inquadrare in ambito locale tale argomento, ci muoveremo tra le pieghe della “storia ufficiale” – scritta ricordiamo perlopiù da uomini e destinata ad essere letta da uomini – tratteggiando qui di seguito alcune vicende che, tra religione, società e affari di famiglia, videro coinvolte cinque nobildonne vissute nel nostro territorio nell’arco di cinque secoli tra l’XI e il XV secolo: Inga, Maria, Margherita, Contessa e Guglielmina.
Prima di procedere, è bene avere a mente come nel Medioevo la donna viene dipinta, ovvero soggiogata dalla propria sessualità e per questo strettamente legata al peccato – l’episodio che viene costantemente evocato è quello in cui Eva mangia il frutto proibito offertole dal serpente – essa va pertanto protetta, sia da sé stessa che dagli altri. I grandi pensatori definiscono perciò all’inizio del XIII secolo un rigido modello, basato su castità e continenza, in grado di mettere ordine nel rischioso e disordinato mondo dei piaceri della carne. Tale modello inquadra la figura femminile in tre categorie: le vergini, le vedove, le mogli. Le vergini rinunciano in modo volontario e consapevole alla sessualità; le vedove vi possono rinunciare a seguito di un evento che le ha private del marito; le mogli si limitano alla procreazione all’interno del matrimonio.
Al di là di tali schemi e preconcetti, si riesce comunque a cogliere via via negli anni un graduale relativo miglioramento della condizione femminile che, sebbene non si possa parlare di vera e propria conquista dei diritti, è quantomeno da ricondurre al mutamento della mentalità, da notare ad esempio la diffusione di quell’ideale cortese per cui la donna, sublime e irraggiungibile, viene ritenuta fonte di virtù: amore, gentilezza, magnanimità …
Prima di accennare ai fatti e alle protagoniste, per meglio comprendere ciò che verrà trattato, diamo brevemente uno sguardo a quale era il ruolo riservato alla donna nelle società dei nostri avi. Al tempo dei romani la figura di riferimento è quella della “matrona” che, pur sovraintendendo la cura della domus, è posta in posizione subordinata rispetto al “pater familias”, è soggetta a molte limitazioni legali e non può partecipare alla vita politica. Ugualmente nella “lex longobarda” essa è sottoposta alla stringente tutela del maschio, che assume il ruolo di “mundialdo” e deve autorizzare qualsiasi atto giuridico. Supremo mundialdo è il re. E mentre il figlio maschio, raggiunta l’età per portare armi, può uscire dalla tutela paterna e costituire un’altra famiglia, la figlia femmina riceve invece una dote per sposarsi, il cosiddetto “faderfio”, dono nuziale che il padre le elargisce, a titolo di anticipata successione, in quanto lei è esclusa dall’eredità. In ogni caso la donna trascorre tutta la sua vita sotto la custodia di un uomo che può essere il padre, un fratello o il marito.
Nella cultura longobarda, la donna è comunque tenuta in discreta considerazione in quanto ritenuta l’elemento di continuità, è colei che in alcune condizioni trasmette ad esempio il titolo comitale: il matrimonio con una vedova assicurava la prosecuzione della discendenza. Inoltre accade non di rado che ad alcune figure femminili, come alle badesse, vengano riservati ruoli di rilievo politico e sociale dai tratti quasi moderni.
- Donna Inga, Badessa del Monastero di San Salvatore a fondo Valle
E proprio questo, in una certa qual misura, potrebbe essere stato il caso di Inga, discendente ed esponente di una di quelle nobili famiglie di origine germaniche che abitano il nostro territorio all’inizio dell’XI secolo. Territorio ricompreso ancora al tempo all’interno dei confini del ducato di Spoleto. Tali gruppi “aristocratici” sono particolarmente legati ad enti religiosi quali monasteri e abbazie, che non mancano di finanziare, in quanto rappresentano entità non direttamente assoggettate al potere centrale e vescovile e permettono pertanto di mantenere il controllo del territorio tessendo e mantenendo salde le fondamentali reti di alleanze parentali. Si tratta di centri certamente etici e religiosi in cui monaci e monache pregano per le anime dei parenti laici e proclamano il vangelo, ma anche centri di ricchezza e potere economico che grazie a donazioni ed agevolazioni arrivano anche a controllare ampi territori, che a loro volta potranno essere concessi e dati in enfiteusi a famiglie laiche, spesso proprio parenti dei religiosi stessi.
Nei pressi di San Vittore delle Chiuse, nel territorio di Castel Petroso (Pierosara), sulla riva sinistra del fiume Sentino a poca distanza dalla confluenza con l’Esino, si trova al tempo il monastero femminile di San Salvatore di Valle, di cui rimane oggi unicamente il toponimo “campo delle sòre”. Del cenobio, forse fondato da San Romualdo, sappiamo che nel 1008 risulta abbadessa Inga, che riceve beni e diritti dal fondatore Gezo del fu Atto. Per la precisione nel documento si riporta “Gepo filium quoddam Actoni” (=“Gezo, filius Attonis”). Secondo gli studiosi l’abbadessa sarebbe da ritenersi la cugina, secondo altri la figlia, di Gezo.
In tale atto giunto fino a noi, egli stesso, dona altra terra al cenobio da lui edificato e cede alla badessa la propria parte di giurisdizione sul monastero a patto che resti sempre autonomo, non soggetto a vescovo o altro cenobio.
Il nome della badessa Inga appare inoltre nell’atto giuridico di fondazione del monastero femminile che viene dotato di “ecclesia propria”. Il monastero maschile “corrispettivo” è la vicina abbazia di San Vittore delle Chiuse. Su entrambi, i fondatori manterranno il loro patronato, con i relativi obblighi economici, militari, giuridici di protezione e difesa di monaci e beni, con il diritto di scegliere sempre coloro che dirigeranno i due istituti.
Lasciando la nostra badessa e la sua realtà, e spostandoci al periodo ricompreso tra fine ‘200 e metà ‘300, sono da segnalare in ambito religioso femminile le significative esperienze delle “carcerate” o “repentite”, che assumono nel territorio di Fabriano, oramai divenuto centro abitato di riferimento della zona, tratti di notevole specificità e diffusione. Esse attestano la forza della sensibilità religiosa femminile, che spinge una gran quantità di vedove e ragazze ad un’autonoma scelta di vita eremitica, povera e penitenziale, tanto che il vescovo di Camerino sarà costretto ad intervenire prima con l’inserimento di queste numerose realtà entro una più datata e salda regola ecclesiastica, quindi, nel 1408, con un decreto che stabiliva l’accorpamento per ridurne il numero e l’inurbamento per ragioni di sicurezza.
Per chiudere l’argomento ecclesiastico, è bene notare come in generale nei conventi e monasteri medievali le condizioni femminili si possano considerare in un certo senso migliori rispetto all’esterno. Le pie abitatrici hanno da mangiare, uno spazio per sé, possono in alcuni casi arrivare ad apprendere a leggere e scrivere (un’eccezione dato che abitualmente tali attività erano destinate ai figli maschi), e non da ultimo, cosa non secondaria visti gli alti tassi di mortalità, esse non rischiavano di morire di infezioni per il parto.
- Donna Maria, ospita in casa sua San Francesco d’Assisi
Continuando nel nostro excursus tra le figure femminili del medioevo fabrianese, arriviamo al XIII secolo, quando in alcuni atti pubblici e quietanze di pagamento troviamo nominati alcuni fabrianesi che avevano combattuto al fianco di Assisi contro Perugia nella battaglia di Collestrada (1202-1203) e che erano stati compagni di prigionia di San Francesco d’Assisi. Essi sono i discendenti di quelle famiglie di “maiores” che nel 1198 diedero con la “carta major” origine al comune di Fabriano. Fabriano, come Assisi, era un centro di operosità e commercio e i rapporti tra i due centri sono già testimoniati fin dalle origini del comune, quando alcuni nobili assisiati, scacciati dal popolo, si erano rifugiati nel castello di Fabriano. La particolarità che due di essi sono nominati, anziché con il solo patronimico, sono identificati con il nome della madre: “Guiderto e Girardo figli di Donna Maria vedova d’Alberico di Gentile”.
La sensazione che si ha leggendo tale documento è assai singolare in quanto, all’interno di un lungo elenco di nomi maschili, quello di Donna Maria è l’unico femminile a comparire. In realtà, come vedremo anche più avanti, questo non è un caso, quanto piuttosto una necessità, che indica il regolare trasferimento di diritti di successione, la singolarità è data semmai dal fatto che in questo caso siamo appunto in presenza di figli già adulti in età da combattimento.
Un riconoscimento dato dalla condizione vedovile, in realtà, si aveva già ai tempi dell’antica Roma, quando, ad esempio a seguito di guerre cruente, si aveva la necessità di tramandare le proprietà dei molti soldati caduti. Le vedove che rimanevano “univire”, cioè non si risposavano, avevano benefici legali e potevano ereditare le proprietà del proprio marito defunto. Ugualmente accadeva dunque nel medioevo per le vedove, che non avessero abbracciato la vita religiosa, che probabilmente in questo caso sarebbe stata monacale dato il periodo storico e il rango.
Secondo la tradizione francescana, nell’aprile del 1209, Donna Maria al tempo ancora moglie del fu Alberico di Gentile e madre di Guiderto e Girardo, accoglie San Francesco, già compagno d’arme dei suoi due figli, nella sua abitazione situata in contrada Valpovera. La nobildonna vedendo Francesco, vestito con un semplice saio e in quelle condizioni di estrema povertà, probabilmente fa resistenza, interpretando come il mendicante sia venuto a chiamare i suoi figli per altre avventure. Udendo però le parole di Francesco, la donna capisce che le cose sono cambiate e viene colpita dal suo pensiero. Lo ospita nella sua abitazione, nel luogo in cui dopo alcuni anni sorgerà il convento francescano San Francesco alle Logge, predetto proprio da lui in quel giorno dell’incontro con la nobildonna: “in questo luogo, si stabiliranno i miei poveri frati”.
Questa è la trascrizione della lapide, oggi riprodotta nella facciata dell’ex chiesa di San Francesco, e che un tempo si trovava nella casa di posta in contrada Valpovera e che secondo il Sassi, per impostazione, era “non posteriore alla fine del secolo XIII”:
“Stans hic Franciscus ubi nunc est heccine discus predicat hunc murum fratrum cum domo futurum nam hic se pavit atque hic firmiter prophetavit quod hic situs pauperum sit scite prescitus eoque quo statum val povera vulgo vocatum”
L’originale venne conservata per secoli in una stanza interna del convento di San Francesco, nel luogo dove era tradizione che il Poverello d’Assisi fosse stato ospitato da Donna Maria. Gerardo, figlio di Donna Maria, fu console del comune di Fabriano, nell’anno 1220, e fu uno dei donatori ai frati minori del “locus de Cantiro” per la costruzione del loro primo convento avvenuta nel 1234.
- Donna Margherita, vedova del conte di Rovellone, cede a Fabriano i suoi possedimenti
Come ben evidenziato da Elisabetta Archetti Giampaolini nel suo studio “Donne della Marca nel Medioevo”, altro episodio che ci restituisce ed attesta un miglioramento dei diritti delle donne è la querela fatta al comune di Fabriano dalla contessa Margherita di Clodio dei Manetti da Cingoli, seconda moglie del conte Gentile da Rovellone. Ella, in quanto tutrice dei propri figli, conduce una strenua difesa dei loro diritti ereditari sui beni rurali e castrensi ricompresi tra i fiumi Esino e Musone e finiti al comune di Jesi. Beni che erano stati lasciati dal conte in indiviso ai suoi eredi nel suo testamento redatto del 1303. Sebbene Margherita non riuscirà ad ottenere ciò che aveva richiesto, complice la strategicità dei vasti territori del disciolto feudo dei Rovellone, l’azione legale promossa apre un lungo contenzioso tra i due comuni, che fino ad allora mai si erano combattuti. Tale situazione generatasi è in ogni caso indice di come l’evoluzione del diritto a favore delle donne sia all’epoca ormai riconosciuta presso i due comuni. Dunque le madri vedove sono ora di fatto le tutrici degli orfani, e non più i parenti stretti uomini della famiglia paterna. E ciò non sarebbe uno sporadico caso isolato, come testimoniato da altre cause intentate a Fabriano da madri tutrici tra il 1306 e il 1315.
Dalla morte del conte Gentile il contenzioso si protrae in realtà per circa 15 anni, dal 1303 al 1318, con saccheggi e ruberie e con i giuristi che sono costretti a districarsi tra diritto pubblico e privato, ma anche tra Jesi che parteggia per i figli di primo letto (il figlio Tommaso e gli eredi dell’altro figlio Fidismido) e Fabriano, che parteggia per la vedova Margherita in attesa di un bambino, con i figli Rambertuccio, Giovannino, e Andrea.
Il testamento, sebbene posto in modo molto chiaro, risulta quantomai difficoltoso nell’esecuzione e ben congegnato per favorire la giovane vedova e per lasciare indiviso il feudo: alla parte dei figli Tommaso e dei discendenti di Fidismido, spetta infatti la consegna entro 15 giorni alla vedova Margherita della quota parte di patrimonio lei spettante e qualora ciò non avvenga, a loro viene sottratto ogni diritto sull’eredità. In tal caso la metà dei loro beni andrà a Fabriano e l’altra metà a Margherita. In seguito a ciò scoppierà dunque una cruenta guerra tra i due comuni.
Dopo vari ricorsi al rettore della marca, di conquiste di territori e mantenimento della posizione, il tutto si conclude sostanzialmente con il risultato previsto, in favore di Margherita: la vendita della sua quota parte di castelli al comune di Fabriano per un ingente somma di denaro. Come scrive Castagnari in “Abbazie e Castelli della Comunità dell’Alta valle dell’Esino”: “Da parte sua la contessa Margherita si muove con decisione e destrezza. Nel 1305 vende a Fabriano, che non aspetta altro, i castelli di Rovellone, Castelletta, Avoltore, Grotte, Precicchie con relativa giurisdizione per 20.000 libre ravennati e anconitane, legando così sempre più i propri interessi e quelli dei suoi figli al comune, che ormai è divenuto il legittimo protettore della sua famiglia, fino al punto di impegnarsi con atto notarile a sostenere tutte le spese per eventuali liti dovute a rivendicazioni di eredità da parte di altri pretendenti. Dopo alterne vicende la dura ed inutile guerra tra i due comuni si conclude con un trattato di pace, firmato il 1 settembre 1308, nel quale si riconosce a Fabriano i diritti sugli ambiti castelli di Rovellone, Castelletta, Grotte, Avoltore e Precicchie.”
- Madonna Contessa Farratoni, dona terre per costruire il monastero di Santa Caterina
Altra vicenda in cui ritroviamo una figura femminile riguarda la costruzione della Chiesa e Monastero di Santa Caterina sul Castelvecchio di Fabriano. Iniziata nel 1383 per opera del monaco Silvestrino fra Giovanni di Bartolomeo su un terreno offerto dalla nobildonna Contessa Farratoni. Il luogo sacro, dalla fine dell’1800 officiato dai Frati Minori, nel 1397, venne aggregato alla Congregazione degli Olivetani: lo stemma dell’ordine è tuttora visibile sia all’interno che all’esterno della chiesa.
Un documento dei primi del ‘400 proveniente dall’archivio dell’allora Santa Caterina “di Monte Oliveto”, e che dopo la soppressione venne conservato dall’abate Carlo Rosei e passò quindi a mons. Aurelio Zonghi e ad Ernesto Moscatelli, così ci tramanda la fondazione del monastero:
“Imprima sia manifesto ad ogne huomo come el venerabile homo frate Giovanni de Bartholomeo da Fabriano già dell’ordine de Monte Fano per desiderio de migliore vita et della regolare observantia chiedendo licentia dallordine et dal generale et avendola obtenuta […] cum volunta licentia et benedictione de missere Benedicto da Fabriano vescovo de Camerino et ancora de licentia de monaci de sancto Biagio tramuto la dicta chiesa de Sancta Caterina dentro in Fabriano nelluoco chesse chiama Castelvecchio nelle case che gia furono de missere Ranaldo de missere Rigoccio le quale case fu concesse et donate al decto priore da madonna Contessa figlia et herede del decto misser Ranaldo”.
I Farra o Farratoni, di cui madonna Contessa era erede, erano probabilmente i maggiori possidenti di Castelvecchio, il nucleo più antico di Fabriano, dove erano proprietari del palazzo e della torre del primo castello. La famiglia aveva inoltre, forse già dal XII secolo, il patronato della chiesa di San Giorgio. Famiglia molto in vista, in particolare con Farratone che sul finire del ‘200 si dedica all’attività finanziaria concedendo prestiti a vari fabrianesi e che nel 1295 è annoverato tra i “sapientes” accanto ai priori delle arti.
L’atto di donazione di madonna Contessa di Ranaldo di Rigoccio di Farratone è conservato nell’archivio storico comunale di Fabriano ed è datato 17 gennaio 1382. In esso la vedova del conte Ugo degli Atti di Sassoferrato, dispone che sia edificato un oratorio o chiesa in onore di Santa Caterina, dove vengano celebrati i divini uffici e venga cantata una messa quotidiana per le anime dei suoi defunti; che sia inoltre costruita un’abitazione congrua ad ospitare più monaci secondo la regola di San Benedetto; che sia infine riservata un’abitazione alla donatrice, ai figli Gioacchino, Vanna e Gaspare.
Nel frattempo a Sassoferrato gli Atti tornano nuovamente al potere: in data 3 giugno 1390, i nipoti di madonna Contessa, Giovanni ed Ermanno, vengono nominati con bolla di papa Bonifacio IX vicari apostolici (= signori) di Sassoferrato.
Ed è forse anche per questo motivo che il 1 novembre 1390 la donatrice concesse la revoca della clausola, ritenuta troppo stringente, che imponeva di provvedere a fornire un’abitazione per la sua famiglia, accontentandosi di tenere per sé e per i discendenti diritto di sepoltura nella chiesa, e che limitatamente “ai soli maschi e per sola devozione” fosse concesso di dimorare nel monastero purché ciò non generasse incomodo ai monaci o mettesse a rischio la rigorosa osservanza alla regola degli Olivetani.
Non a caso nello stesso documento citato poco sopra, elencando varie proprietà e donazioni, lo scrivente ci fa intendere come per la comunità monastica fosse meglio evitare qualsiasi commistione con il genere femminile, quasi a delineare, come commenta il Sassi, una certa “fobia della donna tentatrice e corruttrice”. Vicinanza da evitare, se non altro, per scongiurare qualsiasi maldicenza o calunnia che, complice il pregiudizio, avesse potuto compromettere il buon nome dell’Ordine. Questo, a riguardo, il passaggio relativo all’acquisto nel 1410 di alcune case con vigna, orto, oratorio e cisterna nel borgo di Sassoferrato reso possibile da donazioni di Chiavello Chiavelli e di una pia nobildonna sassoferratese:
“Et frate Pietro da Padova priore de Sancta Caterina con volonta de tucto lo suo capitolo de fare che loco non sia avetatione de dompne (=che il luogo non diventi abitazione di donne), ma sia avetatione de homini boni quanto se podera o veramente de quigli poveri chiamati apostoli o altri fraticilli o bone persone”.
- Donna Guglielmina fugge con le figlie da Fabriano dopo l’eccidio dei Chiavelli
Per introdurre uno degli avvenimenti più noti tra quelli citati in questa sede, cioè la fuga da Fabriano delle donne dei Chiavelli a seguito dell’Eccidio del 1435, è bene fare qui una considerazione ed è, come ebbe a dire la nota studiosa Chiara Frugoni di recente scomparsa, che paradossalmente la condizione femminile della donna medievale, è peggiore man mano che la classe sociale è più elevata. Le donne sono fondamentalmente delle pedine: in alcuni casi devono intraprendere una vita monastica imposta e non gradita, molto spesso devono accettare matrimoni contratti per imposizioni familiari. Tutto ciò perché esse muovono dei patrimoni. Con matrimoni che si sciolgono secondo convenienze e altri, nuovi, che si celebravano qualora si creino migliori possibilità.
Per rendersi conto di quanto questo sia vero, è sufficiente vedere gli alberi genealogici delle grandi famiglie tra fine ‘300 e inizio ‘400: dei Chiavelli di Fabriano, dei Varano di Camerino, degli Smeducci di San Severino Marche, dei Trinci di Foligno, dei Montefeltro di Urbino … un vero e proprio intreccio con più matrimoni – prime seconde, terze nozze … – che vengono contratti per finalità “politiche” di governo del territorio ed alleanze, per consolidare il potere e i legami delle rispettive signorie. Fabriano politicamente gravita nell’orbita d’influenza di Venezia, con i Chiavelli legati da rapporto di aderenza ai Montefeltro (una sorta di accordo tra pari ma che prende atto della preminenza del più forte, cioè i Montefeltro). Con l’arrivo dell’abile e astuto condottiero Francesco Sforza, al soldo del duca di Milano divenuto quindi signore della Marca e gonfaloniere della Chiesa, si genera un’estrema tensione in tali equilibri.
Un clima avvelenato che contribuisce al verificarsi di fatti di sangue come l’eccidio dei Varano in cui, sulla porta d’ingresso della chiesa di San Domenico a Camerino il 10 ottobre del 1434, vengono uccisi numerosi figli maschi della nobile famiglia e il successivo eccidio dei Chiavelli, avvenuto il 26 maggio 1435, giorno dell’Ascensione all’interno della cattedrale di San Venanzio durante il quale perdono la vita gran parte dei figli maschi della casata fabrianese.
Ebbene forse è poco noto, ma tra le varie teorie avanzate dagli studiosi una riconduce l’eccidio dei Chiavelli a tal Arcangelo di Antonio di Vigoroso Chiavelli, appartenente a un ramo cadetto della famiglia. Rifugiatosi sembra a Camerino per proteggere la bella moglie, l’anconetana Caterina di Francesco Fazioli, insidiata da Battista Chiavelli, dispotico e tirannico signore fabrianese. Da lì si dice che Arcangelo abbia architettato la strage. Che l’eccidio sia dunque scaturito per difendere l’onore della sua dama? Singolare come egli sia nominato nelle cronache Arcangelo di Fiordimonte (cioè con il nome della madre Fiordimonte, quasi – chissà – a recidere ogni legame con la famiglia paterna). Gira voce egli sia cospiratore anche della congiura dei Varano a Camerino e di quella tentata agli Ottoni a Matelica. Difficile capire come si svolgono i fatti, certa è però la sua morte cruenta: Arcangelo viene ucciso per mano di un sicario, forse mandato dai Varano, che lo raggiunge ad Ancona.
Dopo l’eccidio dei Chiavelli molte sono le pressioni affinché le donne della famiglia non vengano toccate, questa la risposta che la comunità fabrianese da a Francesco sforza, rassicurandolo sulle loro condizioni:
“le dicte donne sono sempre state in loco honestissimo et adcompagnate da honestissima compagnia et per nui è stato provveduto che non glie manche cosa alchuna, ancho sia onorate et reverite come è debito da facere et cusì farà per fino a tanto che per la V.ra S.ce sarà commandato quel che abbiamo a seguire”.
La prima ad essere liberata è Madonna Bianca dei Pio da Carpi, moglie di Guido Chiavelli che nel frattempo si è asserragliato a San Donato con il fratello Nolfo. Lei, che in realtà è stata la meno colpita in quanto ha ancora vivi il marito e i due figli, i piccoli Tommaso e Galasso sopravvissuti ai congiurati e nascosti, si dice sia partita con sua figlia, reclamata da potenti visitatori, ambasciatori di Venezia, con tanto di lettera alla comunità scritta dal Doge Francesco Foscari in persona.
Il consiglio accetta quindi di liberare le altre. Ecco come avvennero i fatti stando alla cronaca manoscritta da Andrea Lippera (fine XV sec):
“Nel detto anno 1435 adí 27 de luglio li priori diedero licenza che se andasse con dio Madonna Tora e Madonna Guglielma donna del signor Battista Chiaveli, et nel detto dí si andorno con dio e cavalcorno fuora dela porta del borgo dentro a San Cristofano con sette figlie femine, e venne un famiglio dellabate di Sasoferato, del signor di Faenza, Belucio Trombetta del conte di Urbino, et Moscatelo et altri da Fabriano in loro compagnia, messer Francesco di Matelica, Agostino di Nicolò, Roso di Nofrio, Gostantio di Zarla, Franceschino di Nicolucio, et altri da Fabriano, et andòce deli fanti da Fabriano che stano al soldo”.
Un corteo di donne da liberare, tra ali di folla silenziosa, esce da porta del Borgo, scortate da circa 50 armati inviati da varie corti amiche per protezione, dal conte Guidantonio d’Urbino, dagli Atti di Sassoferrato, da Francesco Ottoni di Matelica, dai Manfredi di Faenza. Si dirigono alla chiesetta di San Cristoforo tuttora esistente, nei pressi del cavalcavia. Esse sono:
- Gugliemina da Varano, moglie di Battista Chiavelli, che ebbe tredici figlioli, sei maschi e sette femmine. Tutti i maschi le sono stati uccisi durante l’eccidio insieme a suo marito: Chiavello, Piergentile, Guido Antonio, Ridolfo, Gismondo, Gentile. Le femmine Margherita, Costanza, Agnese, Pigentina, Elisabetta, Camilla, Nicoletta, sono ora lì al suo fianco. Inclusa la piccola Nicoletta per cui il 13 di maggio, in occasione del battesimo, il nonno Tomaso, anch’egli freddato nell’eccifio, aveva fatto acquisti di dolci e scatole di pinocchiate presso Gaspare lo speziale. Vengono accompagnate da uomini armati dei Montefeltro in Urbino.
- Tora da Varano, sorella di Guglielmina e vedova di Nicolò Trinci assassinato a Foligno nel 1421, zia e tutrice del piccolo Giulio Cesare Varano, futuro signore di Camerino, figlio di Giovanni dei da Varano di Camerino e di Bartolomea degli Smeducci di San Severino Marche, scampato anch’esso miracolosamente alla strage. Scortata da Nicolò Giunta, uomo dei Malatesta, si diresse verso il castello di Sassoferrato e da qui raggiunse un’altra sorella Bianchina moglie di Giovanni Manfredi signore di Faenza
- Maria di Jacobo di Sigillo, la vedova di Galasso, che viene scortata da alcuni familiari alla volta della casa paterna.
Tali fatti, collegati all’eccidio dei Chiavelli ci pongono di fronte all’evidenza di come le donne della famiglia vengono tenute in considerazione, tanto da scomodare l’intervento del doge di Venezia in persona, ma a ben vedere, se da una parte denota come grandi potenti si spendono perché venga salvata loro la vita, dall’altro in sé lascia quella constatazione derivante dal fatto che, a differenza degli uomini, esse non siano state oggetto delle efferate uccisioni, e tenute quasi come bottino o oggetto di scambio: indice di una figura femminile sia ritenuta ancora secondaria e ben lontana da un totale affrancamento.
BIBLIOGRAFIA
ARCHETTI GIAMPAOLINI E., Donne della Marca nel Medioevo – in “Proposte e Ricerche” nr. 59, 2007
CASTAGNARI G., Abbazie e castelli della Comunità Montana Alta valle dell’Esino. Recanati, 1990
CIAPPELLONI G.B., De Clavellis de Fabriano, Fabriano, 2019
CORRADI R. – PESETTI A., San Francesco d’Assisi a Fabriano. Origini e presenze francescane dal XIII secolo ad oggi. Recanati, Nisroch, 2020
DUBY G. – PERROT M., Storia delle donne. Il Medioevo. Bari, Laterza, 1990
FABRIZI D., Il ruolo della donna nel regno longobardo, Spoleto, 2021
FRUGONI C., Donne medievali. Sole, indomite, avventurose. Il Mulino, 2021
GILII C. – GUERRIERI S., Memorie storiche di Fabriano, Fabriano, 1747
MAZZALUPI M., Il volto del traditore. Documenti per Arcangelo Chiavelli alias Arcangelo di Fiordimonte, in “I monti azzurri”, 2015
NÚÑEZ PAZ M., Diritti e doveri delle donne di Roma. Storica National Geographic, set 2020
PAOLI U. – MOROSIN M., L’abbazia di San Vittore delle Chiuse. Antiche Pergamene. Fabriano 2014
PIRANI F., Fabriano in età comunale. Nascita e affermazione di una città manifatturiera. Firenze, Nardini, 2003
SASSI R., I Chiavelli, Fabriano, 1934
SASSI R., Un’antica narrazione inedita dell’eccidio dei Chiavelli, in “Studia Picena”, VIII, 1932