La vita delle donne medievali, come d’altronde delle donne di ogni altra epoca, è influenzata dagli usi quotidiani, dalla morale religiosa e ovviamente anche dalle leggi. Nell’età comunale è lo statuto cittadino a fare da fonte del diritto: si tratta di un insieme di norme raccolte con una certa organicità, ma subordinate al diritto comune, ovvero l’insieme del diritto romano giustinianeo e del diritto canonico.
Anche nello statuto comunale di Fabriano del 1415, promulgato durante il dominio di Tommaso Chiavelli, si trovano diverse casistiche che riguardano le donne: nel presente intervento si proporrà un breve excursus di alcune di queste norme.
Un primo insieme di leggi che ci tocca da vicino è quello delle cosiddette leggi suntuarie, provvedimenti che uniscono considerazioni economiche e morali.
Una curiosità rivelatrice è il fatto che le rubriche degli statuti inizino di solito con la formula statuimus et ordinamus – decretiamo ed ordiniamo -: tuttavia per alcuni argomenti ritenuti pericolosi per l’ordine pubblico e la morale, come la vendita di vino, il gioco d’azzardo, l’ostentazione del lusso e l’adulterio, il legislatore antepone dei preamboli in cui fa emergere la riprovazione che lo hanno portato ad enunciare quelle norme.
Le donne sono spesso oggetto di queste norme: lo statuto fabrianese, molto simile a quello di altri comuni, cerca di estirpare le cattive consuetudini che potrebbero intaccare i patrimoni e la buona fama delle famiglie. Le leggi suntuarie infatti sanzionano le ostentazioni di lusso che possono portare alla rovina economica nonché creare una serie di comportamenti emulativi tra le famiglie più abbienti in una gara di ricchezza. La rubrica 81 del libro II spiega bene nel preambolo il senso delle leggi suntuarie: il fine è quello di estirpare cattive consuetudini che di frequente inducono gli uomini a incorrere in ingenti spese quando vogliono sposarsi con una donna.
Per questo tra le norme enunciate nella rubrica 78 del libro II si proibisce l’esposizione degli oggetti e dei mobili portati in dote, eccetto le casse e i bauli, nel giorno del passaggio della donna dalla casa paterna a quella del marito, la cosiddetta deductio uxoris.
Tra le altre norme che colpiscono la moda dispendiosa delle donne nobili o abbienti vi sono quelle che impongono di non portare strascichi (traginare pannos de dorso seu tradere per terram – II 86), perle, argento, oro, ghirlande in testa o addosso e cinture in argento. Addirittura nei giorni di domenica e delle feste solenni il podestà deve mandare due uomini di buona fama e un notaio nelle chiese e nei luoghi dove si celebrano matrimoni per controllare che le donne non indossino queste cose ed eventualmente sequestrarle. Uniche eccezioni al regolamento sono le cinture in argento fino a 6 once e i bottoni di argento fino a 4 once.
Nel sabato prima di un matrimonio è inoltre proibito far entrare in casa della sposa più di due o tre persone che calzino pianelle e zeppe di sughero, vietate anche durante la transducio uxoris: la norma ai nostri occhi può suonare bizzarra, ma poggiava su preoccupazioni solide. Si trattava infatti di calzature alte e difficili da portare e indossarle era un modo per spiccare tra le altre nobildonne, creando attriti e frizioni tra le famiglie in vista.
Proprio lo svolgimento del matrimonio è codificato nello statuto in diverse rubriche, in particolare per estirpare delle usanze ritenute paganeggianti (II 79): nel Basso Medioevo il matrimonio è un processo in più tappe – la desponsatio, cioè l’atto del fidanzamento e della promessa di matrimonio, la dichiarazione dell’ammontare della dote e il passaggio della donna nella casa del marito – tutte formalizzate tassativamente da un notaio. Benché l’atto della desponsatio implichi un consenso libero delle due parti è facile vedere dalle norme che l’uomo può prendere moglie in qualunque posto purché venga fatto uno strumento notarile che attesti il fatto giuridico (II 87), mentre la donna non può scegliere il marito ma sono i genitori o parenti ad accettare la proposta.
Le norme che regolano i diversi momenti della vita matrimoniale – desponsatio, matrimonio, deductio uxoris, parto e puerperio – indicano tutte precise tipologie di persone autorizzate a partecipare e un numero massimo di presenti, sempre piuttosto esiguo. Prendere parte a una di queste cerimonie significava rendere pubblico l’evento e la celebrazione, rinvigorendo i rapporti con i convitati, ma anche mostrare munificenza e opulenza. Per questo nelle norme contro il lusso si prevede un ridotto numero di invitati, oltre che per ragioni di ordine pubblico e di moralità. Ad esempio nessuno può entrare in una casa dove si festeggia il matrimonio con balli e giochi, a meno che non sia un uomo di spettacolo (histrio) e gli uomini non possono invitare una donna a ballare né prenderla per mano a meno che non siano consanguinei fino al 3o grado di parentela.
Lo statuto è molto attento anche a normare l’istituto giuridico della dote, ovvero l’insieme di beni che la donna portava al marito per contribuire alla vita famigliare. La dote, che non può essere versata prima della deductio uxoris, è di solito amministrata dal marito ma in alcuni casi viene restituita alla moglie e, se l’ammontare dei beni del marito non è sufficiente, la donna può vendere proprietà senza il consenso dello sposo (I 22). La dote è anche l’unico lascito patrimoniale che viene assegnato alle donne nei testamenti dei genitori, dunque non è possibile alla donna chiedere di più di ciò che le è stato dato o assegnato per testamento (I 128).
Se il marito o suocero sono giudicati persone poco degne di fiducia, il podestà può obbligare ad acquistare un bene immobile dello stesso valore della dote da dare alla sposa al momento della restituzione della dote (I 46). La donna vedova che amministra i beni dei figli minorenni può richiedere di avere indietro la dote per convolare a seconde nozze solo dopo aver reso conto della sua amministrazione (I 32). Infatti i tutori devono fare un inventario con tutti i beni amministrati da restituire ai pupilli una volta raggiunta la maggiore età (I 26).
Il problema dell’adulterio riguarda entrambi i sessi per lo statuto fabrianese: uomini o donne coniugati che hanno un’amante devono pagare un’ammenda di 40 lire.
Ma per le donne ci sono delle norme in aggiunta con sanzioni pecuniarie molto salate. Una donna sposata che lascia il marito per l’amante e va a vivere a casa sua deve pagare 200 lire e, se non le ha, è fustigata pubblicamente assieme al compagno (II 34). Inoltre il preambolo della rubrica 70 del libro III afferma chiaramente che “le donne non contente con i mariti, non hanno paura di commettere adulterio e quel che è peggio che esigono la parte della dote al marito”.
Gli statuti prevedono piccole norme destinate a regolare e tutelare la vita quotidiana delle donne, che veniva solitamente spesa nella cura della casa, della prole e in attività come filare o prelevare l’acqua da pozzi e fontane. Per questo chi impedisce alle donne di andare alle fontane e fontanelle in città è sanzionato con 40 soldi se di giorno e 8 lire se di notte (III 93). Le donne non possono filare nella piazza del comune e in quella del mercato nei giorni di mercato né fuori di casa o nell’ingresso se a Fabriano o nel suo territorio vi è di stanza l’esercito (III 94).
Il legislatore riserva queste norme alle donne che vivono all’interno delle mura cittadine: le prostitute erano obbligate a dimorare fuori dalla cerchia muraria e dai borghi e non potevano essere ospitate in casa di qualcuno per più di tre giorni, per non essere costui accusato di lenocinio e di acquisire dunque cattiva fama (II 71).
Chiudiamo la nostra carrellata sulla vita delle donne nella Fabriano medievale con delle norme che ci restituiscono la durezza della condizione femminile in quegli anni: parliamo di leggi contro la violenza sulle donne.
Nella Fabriano del ‘400, le pene per il reato di stupro sono diverse a seconda della condizione della donna violata: se si tratta di una vergine o una religiosa il reo viene condotto a processo, mentre se la vittima è una donna sposata la condanna è di 500 lire, metà del denaro va al comune e metà alla donna. La sanzione per lo stupro di “altre donne”, come le vedove, scende a 200 lire, sempre divise a metà tra il Comune e la donna: addirittura, se la vittima è una donna “di cattiva reputazione” o una prostituta il banno è di soli 100 soldi tutti destinati alle casse comunali.
La denuncia va fatta entro 8 giorni dal fatto, e per presentarla occorre l’assenso di un maschio della famiglia: il padre, il marito, il fratello o gli zii: ovviamente, la pena poteva essere annullata da un matrimonio riparatore. Addirittura, in una terribile inversione di responsabilità, nel caso dello stupro di una donna corruptam, non più vergine, che avesse nascosto la sua condizione, il violentatore sarebbe stato assolto, e la donna punita con la fustigazione (II 33).
La rubrica 36 del libro II condanna coloro che inducono una donna ad abbandonare la casa paterna o dei suoi tutori e in particolare coloro che usano moine e istigazioni (blanditiis vel subgestionibus).
In conclusione, il quadro della figura femminile che emerge dagli statuti fabrianesi del ‘400 vede le donne come esseri emotivi e fragili, da difendere dalle brame maschili e dagli approfittatori, soprattutto se nubili, vedove o orfane.
Il ciclo della vita di una donna medievale vuole che la donna sia figlia, sposa, madre e vedova di un uomo: quando si esce da questa casistica, come ci mostrano con durezza le norme su adulterio e stupro, l’agire quotidiano della donna non va tutelato, quanto controllato e represso.